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Visualizzazione dei post da agosto, 2011

Urla del silenzio

Sidney Schanberg, giornalista del "New York Times" viene mandato nel 1972 in Cambogia, per seguirvi la guerra tra i Kmer rossi ed il governo di Lan Nol e là si avvale del dott. Dith Pran. Una volta preso il potere da parte dei Kmer tutti gli stranieri vengono fatti partire mentre per Pran comincia una lunga odissea dell’orrore nel nuovo regime comunista. Un film dal taglio documentaristico che commistiona vari generi come la denuncia politica e il grande ritratto storico. La fotografia è bellissima, capace di incorniciare paesaggi meravigliosi, che risultano alieni agli sconfinati ossari delle vittime del regime. Due milioni di morti che fino a poco tempo fa il mondo ha ignorato come se non fossimo davanti ad uno dei più grandi genocidi della storia dell’uomo. Il film riesce con poche parole ed immagini commoventi a farci rivivere la follia di quegli anni e parallelamente alza alto l’urlo della rabbia per la complicità del mondo occidentale su questa tragedia. Eppure evoc

Viale del tramonto

Alcuni pensano che la grande rivoluzione del cinema sia stata l’ introduzione del colore. Non è affatto vero, la vera rivoluzione è stata quella di introdurre il sonoro nel cinema. I film muti non erano mai veramente tali. Avevano un accompagnamento musicale, avevano dei professionisti che facevano i rumori, come campanelli o clacson. Ma i dialoghi, le voci e i suoni dell’ ambiente non erano presenti. Con il sonoro molti attori finirono in soffitta. Alcuni avevano una voce orribile, altri non si riuscirono semplicemente ad adattare al nuovo linguaggio del cinema e alle nuove tecniche che richiedevano anche la voce. Questo vale anche per i registi. Non si tratta di un problema di apprendimento della tecnica, ma proprio di apprendere un nuovo linguaggio per esprimersi. Se il colore immette nuove forme e pochi contenuti nel cinema (ad esempio col suo uso simbolico) il suono immette un contenuto nuovo. Il cinema diventa quasi un’ altra arte. Mutano la recitazione, il montaggio, l’ in

Il mucchio selvaggio

Sam Packinpah firma l’ultima grande epopea western: “Il mucchio selvaggio”. Possiamo affermare, col senno di poi, che dopo questo titolo il western ha lasciato l’olimpo del cinema per accantonarsi in una specie di limbo, con qualche nuovo guizzo, ma sempre con una malinconia di fondo di un genere che non riesce a rigenerarsi, che si rende conto di avere esaurito la sua vena, di aver perso la sua consapevolezza di essere “il genere” per eccellenza. In questa opera nessun valore della vita viene salvaguardato. Forse solo quello dell’amicizia epica e folle, a qualunque costo. Un codice d’ onore di altri tempi, dove la ragione affonda. Il mondo, la natura, i rapporti fra gli uomini sono crudeli. Questo è un film coraggiosamente cinico e nichilista. L’ amoralità dei personaggi è necessaria perché è l’ unico modo di (sopra)vivere in una realtà che fa della violenza la maggiore forma di espressione fra gli uomini. Due inquadrature emblematiche aprono e chiudono il film. Una all’inizio e l’ al