Passa ai contenuti principali

I diabolici

Alle porte di Parigi sorge il collegio maschile Delassalle. Il direttore è Michel Delassalle che lo dirige con estrema prepotenza e severità. Non solo alunni e insegnanti sono succubi della sua tirannia ma anche sua moglie Cristina e la sua amante Nicole. Violento ed egoista picchia e umilia entrambe ogni giorno. Strette da un’angoscia sempre maggiore le due donne architettano un piano per uccidere l’uomo e riconquistare la propria libertà.
Cristina è una donna dolce e sensibile che ha investito le sue importanti fortune nel suo sogno di poter creare un istituto importante nel quale dare l’istruzione di alto livello ai giovani benestanti di Parigi. Il marito usa i suoi soldi e ne gestisce le fortune come fossero sue senza però avere nulla in tasca. Fa il padrone con i soldi della moglie. Nicole è una donna emancipata e moderna che si contrappone alla delicata e devota Cristina e la aiuta a trovare il coraggio e la forza per poter liberare la sua vita dagli artigli del marito.
Lo attirano nella casa di Nicole dove si sono recate per passare pochi giorni di vacanza, lo uccidono stordendolo con un potente narcotico e poi affogandolo nella vasca da bagno. Lo nascondono dentro una grossa cesta e lo riportano al collegio di notte, lo gettano dentro la grande piscina del giardino e aspettano l’indomani perché il corpo riemerga e venga scoperto.
Tutto sembra architettato perfettamente. Si penserà ad un tragico incidente e loro due hanno un alibi di ferro con vari testimoni pronti a giurare di averle viste lontane dall’istituto in contemporanea alla morte di Michel di cui nessuno sa gli spostamenti, attento com’è stato a nascondere ogni sua mossa per nascondere lo scandalo di una moglie che gli è fuggita lontano.

Tutto perfetto se non fosse per il fatto che il corpo non riemerge e dopo vari astuti stratagemmi per fare in modo di ritrovare il corpo Cristina fa vuotare la piscina dal custode. Il corpo è sparito.
Le due donne precipitano in un turbine di follia e la salute di Cristina (gravemente malata di cuore) comincia a dare seri problemi. Il marito la chiamava cinicamente "piccolo rudere" e lei si sente in tutto e per tutto devastata dalla vicenda.
A questo punto compare un investigatore in pensione che di soppiatto tiene d’occhio la vicenda. Il perché si scoprirà solo alla fine. Come avrà una risposta la domanda dello spettatore sul titolo del film già di per se enigma. Perché I diabolici e non Le Diaboliche?.
Null’altro si può dire per non rovinare l’incredibile susseguirsi di colpi di scena allo spettatore e la soluzione finale che si comincia ad intuire solo verso il termine della pellicola.
Questo fa riflettere sull’onniscenza dello spettatore odierno che ha visto ogni cosa e possibilità sviluppata nella trama di un film.
Tutto già visto e raccontato?
Certamente ma se si guarda il film dal punto di vista della storia della settima arte si comprende quanto era avanti Clouzot e che il film è un capostipite del noir da quegli anni a venire. Il film è del 1954 e sapendo questo si comprende la grande lezione di suspense, meccanismi ad incastro, raffinata tecnica di montaggio e di inquadratura che il regista ci ha consegnato. Beati gli spettatori dell’epoca che, non viziati dalla nostra bulimia filmica, hanno potuto degustare appieno tutta la novità e la geniale innovazione di Clouzot nel campo del noir senza dimenticare l’inquietante capacità del registra di terrorizzare lo spettatore con il cadavere e la freddezza realista della violenza dell’omicidio e della menomazione del corpo di Michel. Il finale è un concentrato perfetto nel quale esplodono tutte le cariche precedentemente piazzate dall’autore.

Salvatore Floris

Commenti

  1. Ho visto il remake, conta anche quello??? A parte gli scherzi, spero al più presto di vederlo, per rendermi conto di cosa hanno rovinato.

    RispondiElimina
  2. Sicuramente il remake non gli passa neppure vicino ma in effetti è difficile raggiungere la perfezione stilistica di Cluzot!

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Playtime

Playtime è un gioco costoso e sofisticato.  Tati  si muove su piani diversi. Dal non-sense all’umorismo di situazione, a delle gag più dirette e semplici da afferrare basate sulle mimica e i movimenti dei personaggi. Inserisce non di rado riflessioni profonde sull’uomo moderno e sul suo posto nel mondo. Anzi sarebbe meglio dire il suo non essere ed il suo non esserci nel mondo moderno. Si comincia con gli spazi di una Parigi ultra moderna dove vige l’ossessione dell’apparire e del farsi vedere a tutti i costi. Le case e gli uffici sono tutti enormi vetrate che danno sul mondo fuori e che pretendono di farsi vetrina per l’esterno. Un aeroporto non differisce per nulla da un ospedale e tutto lo sforzo per la creatività, per il "distinguersi" si riduce alla creazione di una serie di ambienti molto diversi fra di loro ma in definitiva tutti uguali. Il girovagare di Monsieur Hulot che si muove solo sulla scena come Charlot e che biascica a mala pena qualche parola è il pre

Drag me to hell

R aimi torna al suo primo amore ed al suo elemento naturale: il genere horror. Lo fa con il suo solito stile e le sue armi. Una regia virtuosa, snella e narrativamente efficace. Come tutti i i suoi film “Drag me to Hell” si beve tutto d’un fiato. Riesce a miscelare intelligentemente humor nero, splatter e terrore garantendo un livello di sarcasmo e cinismo non superficiale. Interessante l’analisi della protagonista che si discosta moltissimo dalla solita colomba bianca e immacolata ingiustamente perseguitata dal male. Anzi la sua figura serve a veicolare un messaggio sociale di Raimi abbastanza pungente per i suoi canoni. Nessuno pare innocente, né i bambini, né le ragazze arrembanti che decidono di non concedere una dilazione della rata per arrivare alla promozione… Christine è un’impiegata "rampante" all’ufficio prestiti di un grande istituto di credito che per ottenere una promozione a scapito di un collega vuole mostrare al suo capo quanto "dura" e inflessibi

Halloween di Rob Zombie

Vita morte e omicidi dell’efferato e crudele assassino Mike Myers.  Il capolavoro di Carpenter era già perfetto per questo ritengo un poco inutile cercare di rifarlo. Apprezzo lo stile di Zombie e tutta la vera passione che mette nei suoi film compreso questo, soprattutto questo. La parabola di Mike Myers è anche quella di un male che non ha spiegazione, che esiste e basta. Senza sempliciotte spiegazioni psicologiche e sociologiche. Il merito di Zombie sta, prima di tutto nell’essere stato capace di mantenere questa impostazione inquietante che aveva fatto la fortuna del suo capostipite. Il secondo merito è quello di aver fatto contemporaneamente un prequel abbastanza convincente sulla nascita della leggenda di Myers e un remake non disdicevole. La scelta di mostrare il volto dell’assassino almeno da bambino è sicuramente coraggiosa. Il piccolo demonio non ha nulla di apocalittico o mostruoso ma risulta assolutamente normale, anzi ben voluto da una madre che fino a