Passa ai contenuti principali

Intervista


Fellini non ha più nulla da raccontare. Il suo cinema si è esaurito. O meglio mantiene la sua ciclicità, fatto sempre delle sue ossessioni, delle sue paure, dei suoi segreti inconsci. Egli ha raccontato sempre la stessa storia, cioè se stesso. Rimane solo il ricordo e la voglia di palare di se stesso. Con rara lucidità e coraggio egli ripercorre il suo cinema, anzi il suo continuo farsi e disfarsi, il suo nascere dal nulla. La sua vita che poi con il cinema coincide. Il suo bisogno di parlare lo spinge a fare un film su un film, un autoreferenza tipica della sua poetica. Come dice lui stesso, in un’ intervista (sic) a Vincenzo Mollica, “Intervista” non è altro che una lunga conversazione fra amici messa sotto i riflettori, un montare lo spettacolo che è già spettacolo. Non serve altro forse che la magia del progettare, dello scegliere e del creare immagini. Egli lo definì sempre un “filmetto” ma era il primo arendersi conto di aver creato una grande opera giocando con se stesso. D’altronde la maggior parte dei suoi film è costruita sull’ essenza del gioco e sul semplice andare dove tira il vento. Proprio questo è il suo immenso fascino. I critici di tutto il mondo lo hanno acclamato, premiato a Cannes e a Mosca. Il suo spirito gigionesco e adolescenziale colpisce sempre e non mancano i frammenti da antologia come l’ assalto degli indiani o l’ ingresso del giovincello Fellini a Cinecittà, preceduto da enormi pachidermi. Egli ci mostra un mondo industriale pieno di storie e personaggi trasformati dal suo punto di vista, in macchiette e tipi. Una grande radiografia della quotidianità di Cinecittà, di una troupe di artigiani a lavoro, di attori e di ricordi e immagini che sono nella memoria collettiva e che tornano ad essere cinema in un altro film, in un altro posto, in un universo creativo dove tutto è familiare, felliniano appunto. Quasi amatoriale e volutamente tale, la sua bravura sta proprio nel fatto che dietro quella naturalezza c’è un altro film, un altro attento lavoro dietro le quinte che come al solito si cela per illuderci che il cinema sia solo un gioco.
Musica di Nicola Piovani. Milo Manara è autore della locandina (splendida) che accoglieva gli spettatori fuori dal cinema.

Salvatore Floris

Commenti

Post popolari in questo blog

Playtime

Playtime è un gioco costoso e sofisticato.  Tati  si muove su piani diversi. Dal non-sense all’umorismo di situazione, a delle gag più dirette e semplici da afferrare basate sulle mimica e i movimenti dei personaggi. Inserisce non di rado riflessioni profonde sull’uomo moderno e sul suo posto nel mondo. Anzi sarebbe meglio dire il suo non essere ed il suo non esserci nel mondo moderno. Si comincia con gli spazi di una Parigi ultra moderna dove vige l’ossessione dell’apparire e del farsi vedere a tutti i costi. Le case e gli uffici sono tutti enormi vetrate che danno sul mondo fuori e che pretendono di farsi vetrina per l’esterno. Un aeroporto non differisce per nulla da un ospedale e tutto lo sforzo per la creatività, per il "distinguersi" si riduce alla creazione di una serie di ambienti molto diversi fra di loro ma in definitiva tutti uguali. Il girovagare di Monsieur Hulot che si muove solo sulla scena come Charlot e che biascica a mala pena qualche parola è il pre

Halloween di Rob Zombie

Vita morte e omicidi dell’efferato e crudele assassino Mike Myers.  Il capolavoro di Carpenter era già perfetto per questo ritengo un poco inutile cercare di rifarlo. Apprezzo lo stile di Zombie e tutta la vera passione che mette nei suoi film compreso questo, soprattutto questo. La parabola di Mike Myers è anche quella di un male che non ha spiegazione, che esiste e basta. Senza sempliciotte spiegazioni psicologiche e sociologiche. Il merito di Zombie sta, prima di tutto nell’essere stato capace di mantenere questa impostazione inquietante che aveva fatto la fortuna del suo capostipite. Il secondo merito è quello di aver fatto contemporaneamente un prequel abbastanza convincente sulla nascita della leggenda di Myers e un remake non disdicevole. La scelta di mostrare il volto dell’assassino almeno da bambino è sicuramente coraggiosa. Il piccolo demonio non ha nulla di apocalittico o mostruoso ma risulta assolutamente normale, anzi ben voluto da una madre che fino a

Carrie lo sguardo di Satana

CARRIE LO SGUARDO DI SATANA. regia: Brian de Palma anno: 1976 durata: 97 min. con: Sissy Spacek, John Travolta, Piper Laurie, Amy Irving, Wiiliam Katt. Horror di un altro livello rispetto a quelli odierni. La miscela fra ambiente studentesco e fenomeni tenebrosi ha dato linfa vitale ad un genere horror – giovanile che perdura tutt’oggi. La povera e indifesa Carrie vive emarginata, ai limiti della follia, schiava di una madre malata che ha riversato la sua delusione nel fanatismo religioso, circondata dalla crudeltà delle sue coetanee. Un giorno tutto sembra cambiare, la sua vita sembra diventare finalmente normale. Ma un crudele scherzo dei suoi compagni di scuola le romperà definitivamente la speranza.  La sua furia omicidia sarà implacabile, i suoi poteri telecinetici distruggeranno tutto quello che incontra. Tornata a casa, che dovrebbe essere il luogo di riposo e sicurezza, troverà una madre impazzita completamente che la pugnalerà, come una novel