Sam Packinpah firma l’ultima grande epopea western: “Il mucchio selvaggio”.Possiamo affermare, col senno di poi, che dopo questo titolo il western ha lasciato l’olimpo del cinema per accantonarsi in una specie di limbo, con qualche nuovo guizzo, ma sempre con una malinconia di fondo di un genere che non riesce a rigenerarsi, che si rende conto di avere esaurito la sua vena, di aver perso la sua consapevolezza di essere “il genere” per eccellenza. In questa opera nessun valore della vita viene salvaguardato. Forse solo quello dell’amicizia epica e folle, a qualunque costo.
Un codice d’ onore di altri tempi, dove la ragione affonda. Il mondo, la natura, i rapporti fra gli uomini sono crudeli. Questo è un film coraggiosamente cinico e nichilista.
L’ amoralità dei personaggi è necessaria perché è l’ unico modo di (sopra)vivere in una realtà che fa della violenza la maggiore forma di espressione fra gli uomini. Due inquadrature emblematiche aprono e chiudono il film. Una all’inizio e l’ altra alla fine. Nella prima un gruppo di bambini si diverte a dare in pasto alle formiche degli scorpioni. Poi copriranno le formiche con delle sterpaglie, facendole bruciare. Nella seconda ci saranno gli avvoltoi, che saranno i grandi trionfatori della battaglia finale, del massacro definitivo, che con un pesante humour nero, non saranno affatto diversi dagli sciacalli “umani” che depredano i morti. Uno di loro griderà: “E’ come una lotteria!”. Peckinpah chiude dunque ogni discorso consolatorio, facendo del destino una forza inarrestabile, dove ogni uomo non può fare altro che essere se stesso e seguire la propria strada. Andando incontro alla morte Pike chiederà “Andiamo?” e l’ unica riposta potrà essere: “Perché no?”. Cos’altro possono fare questi uomini? E questo è un film di banditi, di canaglie, di profeti della morte.Anche la violenza esplode in due scene madri e straordinarie all’inizio e alla fine del film, che tecnicamente fanno ancora spalancare la bocca dallo stupore. Anche queste due sparatorie infinite racchiudono come due parentesi tutto il film. In ogni luogo regna una guerra perenne e uno stato aldi fuori della legge e della legalità, l’unico diritto è la pistola più veloce insomma. A mio modo di vedere non è un caso che i due protagonisti contrapposti si somiglino molto anche fisicamente.
Cacciatore e preda, giusto e sbagliato, bene e male si confondono spesso e si miscelano, come per gli scorpioni e le formiche arriverà sempre qualcuno più “carogna” di te, più forte che ti farà bruciare. L’ unico punto fermo è questo destino tragico che permea l’ atmosfera. Infatti alla fine colui che era passato dall’altra parte, dalla parte della legalità,(ma in realtà si tratta di un killer protetto dalla legge, conduttore di un gruppo di avanzi di galera più squallidi dei banditi a cui danno la caccia – quindi di nuovo la miscela di ciò che giusto e ciò che è sbagliato), ritorna dove la sua natura lo porta.
Interessante l’ uso del ralenty, che dilata i tempi dell’azione mettendo le vicende su uno stato altro, che serve a sottolineare la dimensione epica dei gesti, delle morti o anche semplicemente delle risate. Stimolante l’ alternanza fra questa scelta stilistica e momenti flash, un montaggio rapido e caotico che spezzetta l’ azione in mille frammenti. A questo va aggiunto l’ uso del Panavision, i campi lunghi e lunghissimi che sottolineano la maestosità della natura e degli spazi aperti contrapponendoli alla piccolezza degli uomini. Quindi il film è specularmente complesso, nei personaggi e nella storia così come nella tecnica. Un film completo capace di parlare di grandi temi come la morte, l’ amicizia e la giustizia come appunto solo i grandi western possono fare.
IL MUCCHIO SELVAGGIO 1969 – COLORE – 138 MINUTI
Salvatore Floris
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