Roger Ferris è l’uomo della Cia nel Medio Oriente. Parla l’arabo, sa muoversi, adattarsi, tessere velocemente relazioni, ottenere informazioni. Ed Hoffman è il suo supervisore a Washington. Mentre impiega le mani per far salire in macchina i figli o aiutarli a fare pipì, con un telefono senza fili fa la guerra, sacrifica vite umane, salva se può quella del suo compatriota, dal suo punto di vista salva ogni giorno il mondo. Usa le persone e non si fida di nessuno. Ha insegnato ai suoi a fare altrettanto ma Ferris sembra avere qualche scrupolo di coscienza. Soprattutto da quando si è alleato con Hani Salaam, capo dei servizi segreti giordani, per portare allo scoperto Al-Saleem, la mente degli attentati che stanno colpendo l’Europa. L’ultimo film di Scott si presenta come un lavoro sinceramente senza infamia e senza lode. Se da una parte si assiste ad uno spettacolo per gli occhi sotto il punto di vista del montaggio, dell’inquadratura e dei movimenti di macchina, dall’altra si ha, per tutta la lunga durata del film, la sensazione di un dejà vu che non avrebbe richiesto sforzi ulteriori per una sua riproposizione. Scott gira da maestro con molte macchine da presa contemporaneamente e spiazza lo spettatore sia nella trama molto ingarbugliata che con il tipo di visione frammentata e volutamente confusa che impone allo spettatore. Le scene delle sparatorie sono eccezionali e le esplosioni di una verosimiglianza quasi insopportabile. Il lavoro sul suono potrebbe anche avere qualche attenzione alla notte degli oscar. Le scene di tortura sono crudissime e rasentano lo splatter. Scott se ne frega dell’edulcorante mediatico di questi anni per applicare la realtà nuda e cruda della guerra nella sua violenza indiscriminata e nella sua follia omicida.
La prospettiva ha due sguardi particolari, quello di Ed e quello di Roger. Il primo è un politicante e teorico della guerra e dello scontro di civiltà, la sua visione è quella del satellite, immagine pulita che vede la guerra come un videogioco. Il suo corpo è flaccido, comanda uomini destinati a morire mentre accompagna il figlio a scuola oppure fa colazione. Roger sta in mezzo alla gente. In mezzo ai feriti, alla polvere e conosce veramente ogni angolo e respiro non solo del terrorismo ma anche dell’anima araba. Sul suo viso i primi piani, nei suoi occhi la guerra totale. Il suo corpo è martoriato e la sua anima traballa davanti alle necessità militari – politiche e la sua umanità. Entrambi sono però delle canaglie che hanno per primo scopo quello di usare e spremere le persone fino alla fine per poi buttarle via. Ma se alla fine Ed prenderà il suo volo privato per far ritorno a casa e continuerà a dare ordini fatali tramite l’auricolare di un telefonino a migliaia di chilometri dalla scena dell’azione, Roger deciderà di rimanere perché forse la sua vita è in mezzo agli arabi che combatte ma che ha imparato a conoscere. La scena più bella è a mio parere quella della tortura finale di Roger che rivede nell’allucinazione del dolore, la stessa tortura cui aveva assistito all’inizio della pellicola, questa volta dalla parte dei carnefici e non come vittima. Scott riesce dunque a richiamare sullo schermo tutta la complessità del conflitto dentro il quale siamo immersi e presenta numerosi personaggi che hanno interessi e vedute diverse, si tradiscono e mentiscono per i loro scopi. Roger è uomo d’azione che adatta le sue convinzioni alle circostanze,
Ed è un ideologo che ripete in continuazione la sua missione per salvare il mondo, sacrificando anche l’amicizia per le sue “scelte globali”, altri personaggi fanno il doppio gioco schierandosi via via con chi assicura meglio denaro e vantaggi. Si ha, alla fine, la sensazione che il patriottismo dell’opera sia abbastanza piatto e retorico inserendo qua e la alcune riflessione sulle ragioni anche della parte nemica ma senza andare mai a fondo sulle cause e nature più profonde di questa guerra di civiltà. Insomma Scott si interessa maggiormente a tessere diligentemente un buon film di azione e spionaggio piuttosto che andare oltre e cercare uno sguardo nuovo sulla realtà che riempie i telegiornali ogni sera.
Salvatore Floris
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