Playtime è un gioco costoso e sofisticato. Tati si muove su piani diversi. Dal non-sense all’umorismo di situazione, a delle gag più dirette e semplici da afferrare basate sulle mimica e i movimenti dei personaggi. Inserisce non di rado riflessioni profonde sull’uomo moderno e sul suo posto nel mondo. Anzi sarebbe meglio dire il suo non essere ed il suo non esserci nel mondo moderno. Si comincia con gli spazi di una Parigi ultra moderna dove vige l’ossessione dell’apparire e del farsi vedere a tutti i costi. Le case e gli uffici sono tutti enormi vetrate che danno sul mondo fuori e che pretendono di farsi vetrina per l’esterno. Un aeroporto non differisce per nulla da un ospedale e tutto lo sforzo per la creatività, per il "distinguersi" si riduce alla creazione di una serie di ambienti molto diversi fra di loro ma in definitiva tutti uguali.
Il girovagare di Monsieur Hulot che si muove solo sulla scena come Charlot e che biascica a mala pena qualche parola è il pretesto per descrivere la vita -non vita di una Parigi notturna e diurna che potrebbe essere qualsiasi grande capitale europea. Una città che non dorme mai e che si nutre del dover fare a tutti i costi, che basa tutto sull’apparenza e nulla sulla sostanza. La gag della porta a vetri che va in frantumi è una geniale summa di questo messaggio, con il portiere che tiene in mano solo una maniglia e finge che la porta ci sia ancora. Perchè quello che conta è quello che dovrebbe esserci, non quello che c’è.
Tati è un maestro nel preparare scene attraversate continuamente da personaggi e riempite da movimenti che un occhio esperto non può che apprezzare, perchè devono aver richiesto una preparazione lunga e difficile per accordare i tempi di tutti i personaggi. Il ritmo della lunga cena nel night club è meraviglioso. M. Hulot procede senza meta e fuori posto per tutto il film dove non riesce mai a parlare con chi desidera o a incontrare chi vorrebbe. Viene trascinato nell’azione senza mai scegliere e rappresenta un’amara metafora della condizione degli abitanti della megalopoli moderna. Il film è anche una grande profezia su ritmi e spersonalizzazione che tutt’oggi si intensificano.
Salvatore Floris
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