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My name is Joe


Il bel film del grande regista inglese Ken Loach è habitat naturale soprattutto per gli appassionati del genere come me. La storia parte da Glasgow, dove Joe, proletario, pugile, ex alcolista e per di più disoccupato, allena un'improbabile squadra di calcio, costituita da altrettanto improbabili giocatori, tutti border-line come il protagonista.
Grazie proprio a un suo scalcinato giocatore, sposato con una tossicomane, Joe si innamora di un'assistente sociale e la vita sembra finalmente riservare un'altra possibilità anche per lui.
Ma Joe deve fare i conti con un boss della droga, si compromette in un losco traffico e ovviamente sfuma la bella storia d'amore. Del resto tra i due, le opinioni sugli sbandati di Glasgow erano troppo divergenti per continuare.
E tuttavia sembrano veri, Joe e Sarah, il loro è un insolito duetto amoroso nella cornice della povera Glasgow operaia; vedute diverse su tutto, soprattutto sul modo di occuparsi dei mezzi delinquenti che li circondano: alla fine si lasciano. Lui reagisce con violenza disperata, torna a bere; al funerale dell'amico indebitato che si è ucciso si rincontrano, e vanno via insieme. Loach sa che chi non nasce bene, raramente si tira poi fuori dai bassifondi, dove le regole sono spietate. Volendo estendere i suoi principi a chi non può permetterseli, l'assistenza sociale (ovverosia la società borghese), spinge alla morte chi invece doveva proteggere.

Il buon Ken (Loach), in un modo o nell'altro, (per alcuni critici meno bene del solito, ma non per me), anche con questo film resta sempre uno degli ultimi registi a focalizzare la sua attenzione su un mondo all'apparenza dagli altri ignorato, (o sfruttato per altri fini), quello cioè costituito dai personaggi e dall?ambiente sociale e proletario, per non farci dimenticare che anche nel tanto osannato mondo occidentale esiste una larghissima parte di popolazione che vive tra mille difficoltà lontana dalle luci del consumismo; i personaggi di Loach, seppure inizialmente siano contornati (vedi Joe), da una certa allegria e comicità, finiscono sempre in un vortice caratterizzato da amarezza e crudeltà, soprattutto del destino.
Loach, amico del popolo, leader di quell'amato (da me soprattutto) realismo inglese, racconta dunque nuovamente e amaramente il suo paese, cercando di trovare ancora delle figure positive da opporre alla negatività della situazione delle classi operaie; il messaggio è sempre quello: non abbattersi, combattere e andare avanti.


Per concludere, inserirei neanche troppo velatamente una piccola critica ai film italiani: i migliori film (spesso) sono inglesi, anche e direi soprattutto perché scritti e diretti da veri sceneggiatori e registi, che si rivolgono a veri adulti, non agli adolescenti a vita; se a tutto ciò aggiungiamo che gli attori sono veri attori, con fior fior di carriere in teatro alle spalle, direi che il quadro è ben delineato.
Gian Filippo Veneruso

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