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Le vite degli altri


Repubblica democratica tedesca, metà degli anni ottanta.

Gerd Wiesler, un funzionario gelido e infallibile della STASI insegna i metodi della polizia segreta ai giovani allievi, strappa confessioni con la tortura e vive in un clima di sospetto paranoico della DDR. Un giorno gli viene affidato l’incarico di sorvegliare un giovane e importante artista di teatro, Georg Dreyman. Il ministro della Cultura vuole la rovina dell’artista per avere campo libero con la sua compagna. Viene allestita una vigilanza 24 su 24 con microfoni, monitor, telefono sotto controllo e tutti i metodi della più moderna sorveglianza. Per i parametri ideologici e fanatici della polizia di stato l’artista non tarda a manifestare comportamenti ritenuti sospetti per cui è previsto l’arresto immediato.

Ben presto si lascia coinvolgere anche da una rete clandestina di intellettuali che cercano di fare passare informazioni sul reale stato della società tedesca di Berlino Est dall’altra parte del muro. Per questo Georg, finirebbe al muro in poco tempo. In un clima di tranelli, tradimenti, passioni, arroganza del potere, debolezza della carne e dello spirito, ricatti e metodi diabolici per piegare i cittadini alla dittatura comunista, assistiamo ad un miracolo. Gerd Wiesler comincia a cambiare, comincia a sentire la vita degli altri come la propria, il suo gelido muro interno che si è messo in simbiosi con quello esterno di 47 km che taglia in due la città di Berlino, vacilla e apre brecce. Da aguzzino impara dalle sue vittime e si rende conto che la sua vita non è mai stata tale. Allora fa quello che il zelante funzionario di tutti i regimi dittatoriali odia e teme di più. Nasconde la verità ai superiori, protegge la sua vittima, si rifiuta di riferire, calunniare, condannare. Interrompe la catena burocratica delle vittime della fredda burocrazia di regime.

Gerd Wiesler muore e rinasce per il semplice fatto di aver visto la complessità umana nei suoi osservati, un’umanità quotidiana, fatta di cose semplici e anche di cose orribili. Ma troppo grande per qualsiasi ideologia dittatoriale. I meriti del film sono tanti e si potrebbe parlare di capolavoro di un cinema sociale, psicologico e politico. La Berlino Est della guerra fredda è riproposta in modo fedele, quasi documentaristico. La fotografia slavata rende il clima ossessivo e grigio di una società piena di paure e prigioniera nel quotidiano. Dal nazismo al comunismo non è cambiato granché. I metodi sono gli stessi e in questo senso Wiesler è semplicemente un Eichmann che ha saltato il muro. I metodi della Stasi, la psicologia e la natura del potere sono denudati in modo chiaro, analitico, disarmante nella sua semplicità a ridurre gli uomini a manichini, spie delle spie, incapaci di amare e impossibilitati ad essere liberi. Questo è terribile.

La dittatura vista dal basso, dal quotidiano, dalle piccole cose di ogni giorno. Lo stile di regia è perfetto. Essenziale, narrativamente intenso e crudo. Eppure si assiste ad un’opera dolce, profonda dove tutti hanno da imparare. Tante le scene da antologia. La pagina scritta in "burocratese" che si sovrappone all’amplesso dei protagonisti, Wiesler che legge Brecht sul suo divano, i dialoghi essenziali che lascino parlare anche le pause ed il silenzio, la dignità dei perseguitati nei loro volti, Wiesler che chiede al bambino il nome del suo pallone perché non vuole sapere più quello del padre che ha osato criticare la Stasi, cioè il Partito, l’espressione di Gerd Wiesler alla fine del film quando compra il libro in fondo scritto per lui e dice "Nessun pacco regalo. E’ per me". Giustamente premiato con l’oscar 2007 come miglior film in lingua straniera. Unica voce stonata e negativa, penso nel panorama mondiale, quella di Tullio Kezich che non sa più cosa dire evidentemente e dovrebbe ritirarsi a vita privata. Questi sono film che nemmeno ci meritiamo in Italia.

Salvatore Floris

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