Un serial killer tormenta una tranquilla cittadina della Corea del Sud. Due detective dai metodi spiccioli e provinciali vengono affiancati da un moderno investigatore di Seul per scoprire l’ assassino.Una trama del tutto standard e volutamente ricalcata sui pilastri del genere poliziesco americano, che serve a capovolgere e sconvolgere l’approccio e il punto di vista del genere. Non lo consiglio a chi non è interessato alle novità oppure a chi ama la classica storia con lieto fine dove vengono rispettati i parametri del giallo.La grandezza del film sta nella sua inafferrabilità. Narrativa e simbolica. E’ un’opera coraggiosissima. Girata in modo secco, asciutto, con una fotografia livida, con inquadrature studiate ed originali che ne fanno un prodotto tecnicamente sopra la media. Alla fine ci si accorgerà di non aver assistito alla classica caccia dell’assassino seriale ma ad uno spaccato politico, sociale umano quasi neo realista e profondissimo. Il ritmo è volutamente lento e avvolgente.
Lo humor penetra anche nelle parti maggiormente drammatiche in modo spiazzante, soprattutto per lo spettatore occidentale che non coglie sicuramente le sfumature comiche di una comicità coreana lontana nello spazio e nella cultura. Sicuramente gran parte della bellezza dei dialoghi si perde irrimediabilmente nel doppiaggio fra due lingue troppo distanti. Eppure il film rimane un’opera unica e interessante. Il messaggio di fondo è che tutti siamo vittime. Tutti siamo carnefici. Tutti siamo tremendamente e comunemente umani. La denuncia arriva dal cinismo e dalla ottusità della polizia che fabbrica confessioni ad hoc per uscire dalla pressione dell’opinione pubblica. La violenza dei poliziotti è brutale, cinica e non risparmia nessuno, neppure un ritardato mentale. La loro è una persecuzione che lo spettatore approva solo verso la fine. Ma il regista non ammicca mai allo spettatore ed anzi si diverte a disorientarlo di continuo, anche dove sarebbe facile fare proseliti. La novità del detective venuto dalla città moderna e che usa la testa non sembra avere migliori risultati. Uno strisciante sentimento di inferiorità si respira per tutta l’opera. Soprattutto nei confronti dell’America. I laboratori locali non hanno le attrezzature per effettuare un decisivo test del DNA, quindi i campioni vengono spediti negli USA. I poliziotti coreani vanno a piedi ovunque in Corea mentre in America sono costretti ad usare il cervello, perché il paese è immenso.
Eppure, nonostante la stupidità ed anche la comicità di molte situazioni il sentimento che predomina è quello della malinconia. Ben incorniciata dal co-protagonista che troviamo alla fine del film con una nuova vita e una nuova professione. Banale e omologata al villaggio globale. Non a caso veste come un occidentale e pensa da occidentale, con la sua cravatta e il suo senso degli affari. La Corea è cambiata insieme ai suoi abitanti.L’assassino non c’è ma non è più importante dello sguardo finale che riempie l’ultima inquadratura.
Salvatore Floris
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